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02 settembre 2012
STORIA DI UN UCCELLO "IMMORTALE": IL PAVONE E LA "PAVOLATRIA" TRA ORIENTE E OCCIDENTE (XIXa parte)

Il fastoso consumo alimentare della carne di pavone venne aspramente, seppure ironicamente, criticato da alcuni scrittori romani. Orazio (I secolo a.C.), ad esempio, nella satira seconda (libro II delle sue "Satire"), in cui fa l'elogio della temperanza e della frugalità, stabilì un rapporto tra moderazione nel mangiare ed il corrispondente modo di vivere dal punto di vista morale criticando di conseguenza l'"irredimibile" consumatore della carne di pavone attratto più dalle apparenze che dalla sostanza: «Farei però fatica, / se a tavola ti fosse imbandito un pavone, / a impedirti, per solleticare il palato, / di preferirlo a una gallina, / sedotto come sei dalle apparenze, / perché è un uccello raro che si vende a peso d'oro / e spiega una coda variopinta che è uno spettacolo. / Come se ciò avesse a che fare / con la sostanza. / Queste piume che esalti te le mangi forse? / E quando è cotto mantiene la sua magnificenza? / Anche se come carne non c'è una gran differenza, / ti concedo che tu lo preferisca, / ingannato dal suo diverso aspetto». Lo stesso tema viene ripreso nella satira seconda (libro I), dove critica gli adulteri e gli eccessi nell'ambito sessuale: «Quando hai fame, provi forse disgusto / per ogni cosa che non sia rombo o pavone?». Anche il celebre poeta satirico e retore romano Giovenale (55 circa-127 d.C.) così deride un "consumatore di pavone" nella sua "Satira I": «Ma il castigo t'incalza, quando, spogliati i panni, tutto gonfio porti con te in bagno un pavone che t'è rimasto sullo stomaco». A sua volta il celebre poeta Marziale (38 circa-104 d.C.) nei suoi "Epigrammi" (XIII, 70) così ammoniva un ghiottone (di carne di pavone): «Se lo ammiri quando le gemmate ali apre, / o uomo insensibile, come puoi affidarlo al cuoco crudele?». Proprio per dimostrare semplicità e un "maggior senso morale" alcune importanti personalità romane decisero di proposito di eliminare il pavone dalla loro mensa, come leggiamo, con un tocco di sagace ironia, ad esempio in un'epistola di Cicerone ("Epistulae ad familiares", "Lettere ai familiari"): «oso spesso invitare il tuo Verrio e Camillo, uomini di che delicatezza, di che eleganza di gusto! Ma vedi audacia: ho data una cena anche ad Irzio, però senza pavone [sine pavone tamen]; nella qual cena il mio cuoco non altro seppe imitare dal suo, che il brodo bollente». Il pavone compare anche nella letteratura greca dei primi secoli della nostra era. Ad esempio, dallo scrittore e retore greco (ma di origine siriana) Luciano di Samosata (120 circa-192 circa d.C.) ci proviene un brano, proveniente da "Perí tou oikou" ("Sulla sala"), in cui riappare, come nella favola fedriana, il tema della "bruttezza" della voce del pavone rispetto alla "bellezza" del suo piumaggio: «Perché assai tira l’aspetto delle cose belle [...] Il pavone venendo ad un prato sul cominciare della primavera, quando i fiori sbocciano, e sono non pure più vaghi ma si direbbe quasi più fioriti, e di più puri colori, anch’esso sciorinando le ali e spandendole al sole, sollevando la coda e spiegandola a ventaglio, fa mostra dei fiori suoi e della primavera delle sue ali, come se il prato lo sfidasse. Si volge infatti e fa ruote, e ostenta la sua bellezza; e allora pare più mirabile per i colori che alla luce cangiano, e mutansi dolcemente, e pigliano un’altra specie di bellezza. E questo avviene specialmente a quegli occhi che ha in punta delle sue penne, ciascuno dei quali è circondato come di un iride; sicché quel colore che pareva bronzo, se si piega un po’, diventa oro, e quello che al sole pareva azzurro, ombrandosi è verde, e così le sue piume cangiano bellezze ai riflessi della luce. [...] Sicché ciò che egli diceva del pavone poco innanzi, io credo che confermi il mio punto di vista; perché il pavone piace per la vista, non per la voce. Infatti se uno prende un usignolo o un cigno e lo fa cantare, e mentre cantano prende un pavone che non canta, io so che l’attenzione si rivolge a questo, e non bada ai gorgheggi di quelli: tanto il piacere della vista vince tutti gli altri». Nel "Nigrino", invece, che descrive la visita dello stesso Luciano a questo filosofo neoplatonico a Roma, nell'esaltare i "parsimoniosi" ateniesi che rifiutano ogni forestiero che volesse introdurvi del lusso, utilizza il senso "allegorico" di "pavone" per indicare uno di questi "boriosi ostentatori di ricchezza": «Le vesti sfoggiate, e la porpora gliele fecero smettere [gli ateniesi], dando un po' di canzonatura cittadina a quei fiori che vi aveva dipinti di tanti colori: Oh! Ecco è già primavera! Da dove viene questo pavone? Certo sarà la veste della madre». Il poeta greco Oppiano di Apamea, vissuto nel III secolo d.C., scrisse un poema sulla caccia dedicato all'Imperatore romano Caracalla (188-217 d.C.), il "Cynegetica", dove ebbe modo di descrivere la bellezza del pavone: «Di tutti gli esseri che camminano sulla terra, che il grembo fecondo partorisce, che con un'ala leggera attraversano l'immensità dei cieli o che vagano per le acque agitate nelle profondità del mare, il sovrano degli dei non ne ha prodotto nessuno più brillante e più piacevole agli occhi dei mortali che quest'uccello il cui corpo scintilla della ricchezza dell'oro unita allo splendore del fuoco».

(continua nel prossimo articolo...)

Marco Miosi (antropologo culturale) 

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