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16 agosto 2012
STORIA DI UN UCCELLO "IMMORTALE": IL PAVONE E LA "PAVOLATRIA" TRA ORIENTE E OCCIDENTE (XVIIIa parte)

Da alcuni scrittori romani di agricoltura (Varrone nel I sec a.C. e Columella nel I sec. d.C. ad esempio), abbiamo numerose informazioni sul modo in cui venivano allevati e curati i pavoni all'epoca: Columella, per esempio, ci dice a proposito dei pulcini di pavone, che vanno nutriti come quelli di gallina, e che l’orzo lo si dà loro al sesto mese quando si smette di nutrirli con cavallette. Dopo la cova da parte della gallina (come sosteneva già Aristotele e poi ripreso da Plinio - che riteneva possibili fino a 3 cove l'anno con questo sistema - e Columella), che dura un mese, i pavoncini erano affidati a questa "madre adottiva" per tre mesi e a questa età molti di essi erano destinati alla tavola; gli altri invece, in gruppi di circa venti, erano dati alla madre per essere condotti al pascolo. Sappiamo, infatti, che i greci e i romani utilizzarono i pavoni anche come alimento, presentandolo in tavola adornato del suo piumaggio. «Abemus in cena pullum, piscem, pernam, paonem» ("Abbiamo per cena pollo, pesce, prosciutto, pavone") è inciso su di un’epigrafe marmorea custodita nei Musei Capitolini di Roma. Su questa insegna di taverna romana vi sono inoltre due simboli: un cuore (buon’accoglienza) ed una ruota (assistenza ai viaggiatori). Viene anche vantata una cucina d’alto livello perché accanto al pollo ed al pesce è pubblicizzato il prosciutto e, soprattutto, il pavone. I romani usarono cibarsene ed il primo a mettere in tavola il pavone a Roma sembra sia stato il facoltoso oratore e avvocato romano Quinto Ortensio Ortalo (114-50 a.C.) come ci informa Varrone: «Si vuole che per primo Quinto Ortensio Ortalo abbia imbandito a mensa questi volatili nella cena offerta per festeggiare l'inizio della edilità, fatto che allora fu lodato più dagli uomini dalla vita lussuosa che non da quelli di costumi austeri. Ma molti seguirono presto il suo esempio e fecero salire il prezzo di questi volatili al punto che le loro uova [ritenute le migliori in assoluto] si vendono a cinque denari l'uno e i pavoni a cinquanta senza alcuna difficoltà». Il motivo scatenante la scelta di uccidere e mangiare l'animale da parte di Quinto Ortensio è ben espresso dai versi brevi ma efficaci del marchese e agronomo Vincenzo Tanara (XVII sec. d.C.): «L’aver d’Ortensio l’orto lacerato / fummi di gloria dolce, e morte amara, / che col gusto placai l’animo irato / a che non mi giovò beltà preclara». Lo stravagante e dispotico Imperatore Gaio Cesare (12-41 d.C.), meglio noto come Caligola, come ci informa Svetonio, si fece erigere un tempio dedicato alla sua divinità e istituì uno speciale collegio sacerdotale col compito di sacrificare in questo luogo "consacrato" vittime rarissime: «fenicotteri, pavoni, galli cedroni, polli di Numidia, galline faraone, fagiani, e ogni giorno, nel sacrificio, si cambiava la specie». L'Imperatore Vitellio (15-69 d.C.), riferisce lo stesso Svetonio, fece invece presentare in un banchetto un piatto che, per le sue dimensioni, si compiaceva di chiamare "lo scudo di Minerva protettrice della città": «In questo piatto fece mescolare fegati di scari, cervelli di fagiani e pavoni, lingue di fenicotteri, latte di murene, che i suoi comandanti di flotta e le sue triremi erano andati a cercargli dal paese dei Parti fino allo stretto Ispanico». I cervelli di pavoni erano il suo piatto preferito e all'epoca si riteneva che il cervello dei volatili accrescesse e giovasse al cervello umano, in modo migliore di quello degli animali quadrupedi, perché meno molle. Un'altro Imperatore romano, Eliogabalo (203-222 d.C.) noto anche come Marco Aurelio Antonino, stando a quanto riferisce lo storico romano di epoca successiva Lampridio, usava mangiare, spesso per imitare Apicio (25 a.C.-37 d.C., celebre cuoco romano), gli stinchi dei cammelli e le creste recise ai galli vivi, le lingue dei pavoni e degli usignoli, in quanto si diceva che chi le avesse mangiate sarebbe stato al sicuro dall’epilessia. Il pavone era cotto né più né meno come i polli, i capponi ed altri volatili. Si preferivano i pavoncini di tre mesi d’età e vi era l’uso di presentare il maschio in tavola, soprattutto nei grandi pranzi, cotto in diversi modi, adornato con la coda allargata, la testa ed il collo con le piume ben in mostra che venivano incollate con una miscela collosa a base di miele. Dopo averlo disossato si preparavano arrosti da presentare in tavola adornati, come già detto, con le penne della coda, nonché la testa ed il collo piumati. La carne dura e compatta del pavone adulto (ha una longevità in cattività di circa trent'anni) serviva anche per preparare insaccati che erano ritenuti i migliori di tutti se fritti in modo tale da perdere la durezza. Il pavone non incontrò però mai un grandissimo successo nella cucina romana, per via delle sue carni dure, asciutte e dal sapore dolciastro che lascia abbastanza delusi se non si usano molte spezie ed erbe aromatiche e se non viene sottoposto ad una lunga frollatura come nelle preparazioni della cacciagione selvatica, per cui figurava ed era celebrato nei banchetti dei ricchi più per la sua "apparenza" che per la "sostanza". Nel suo "De Re Coquinaria" il già menzionato cuoco Apicio, oltre a descrivere "le polpette di pavone" («per prima cosa sappi che fritta la carne perderà la sua durezza. Al secondo posto stanno le polpette di fagiano; al terzo quelle di coniglio; al quarto quelle di pollo e al quinto quelle di lattonzolo»), cita anche questo fasianide, unitamente a tutti gli altri volatili, a proposito delle salse con le quali condire le carni di volatili. Ovviamente il pavone non poteva mancare nella celebre Cena Trimalchionis ("La cena di Trimalchione"), presente nel XV libro del "Satyricon", romanzo attribuito a Petronio (27-66 d.C.), durante la quale ai convitati erano offerte uova di pavone rivestite di pasta frolla; dentro al guscio di queste uova, immerso nel tuorlo pepato, vi era un grasso beccafico. Dalla "Historia Augusta" sappiamo che il piatto preferito da Adriano (76-138 d.C.) era il pentafarmaco (fagiano, prosciutto con pasta, cinghiale e pavone) la cui invenzione si dice fosse del suo figlio adottivo, il generale Lucio Elio Cesare (101-138 d.C.), a sua volta derivato da un altro piatto con quattro ingredienti principali: il tetrafarmaco (fagiano, maiale, prosciutto e pasticceria).

(continua nel prossimo articolo...)

Marco Miosi (antropologo culturale)


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