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16 aprile 2012
STORIA DI UN UCCELLO "IMMORTALE": IL PAVONE E LA "PAVOLATRIA" TRA ORIENTE E OCCIDENTE (Va parte)

Otto pavoni sostengono d'altronde il Bardo-Thodol, il trono del Buddha Amitâbha ("Buddha della Luce Eterna"), al quale corrispondono il colore rosso e l'elemento fuoco ed è la forma animale che il Buddha della Conoscenza adotta comunemente quando si incarna nel mondo materiale (quando il Buddha Amitābha cavalca un pavone la sua coda si estende dietro al cavaliere formando un'aureola); dai buddisti, inoltre, le sue penne (mayurapattra) sono considerate un simbolo religioso e indicano compassione, immortalità e immunità da ogni veleno (anche simbolico: rabbia, avidità e ignoranza) e dalle tentazioni del mondo, mentre la coda aperta viene associata alla "Ruota della Vita" (sei penne adattate a ventaglio decorano il vaso e l'aspersorio che serve a distribuire l'acqua purificante nel rituale buddista tibetano). Il pavone è ancora in questo caso, si dice, il simbolo della bellezza e del potere di trasmutazione perché la bellezza delle sue piume si suppone prodotta dalla metamorfosi spontanea dei veleni che egli assorbe distruggendo i serpenti. Secondo il buddismo Mahāyāna infatti: «I bodhisattva sono paragonati ai pavoni: essi si cibano di afflizioni - quelle piante velenose. Trasformandole nell’essenza della pratica, crescono robusti nella giungla della vita quotidiana. Qualsiasi cosa venga offerta essi l’accettano sempre, mentre distruggono il veleno del desiderio». Nel trattato buddista "La Ruota delle Armi Taglienti" di Dharmarakshita, il pavone viene considerato capace di neutralizzare e di utilizzare come alimento un veleno questa volta non animale ma vegetale: quello dell'aconito nero o vatsanabha (Aconitum ferox), una pianta tossica ma adoperata con particolari dosaggi e in abbinamento ad altri ingredienti dalla medicina tradizionale ayurvedica (specialmente in quella tibetana) per la cura di vari disturbi tra cui quelli mentali. Sempre nel Tibet di fede buddista, inoltre, troviamo Palden Lhamo (il cui nome si traduce come "Gloriosa Dea", Shri Devi in sanscrito), l'unico "protettore" di sesso femminile del Dharma e del Tibet, comune a tutte le quattro scuole del Buddismo Tibetano: è raffigurata in modo molto irato, e cavalca il suo mulo attraverso un mare di sangue, circondata dal fuoco della saggezza; appare di color blu-scuro ed ha una faccia con tre occhi, ha un sole sull’ombelico e la luna sulla corona della testa, e al di sopra di lei vi è un ombrello-pavone (tradizionale simbolo di protezione). Nel racconto "Maha-Mora Jātaka" dei "Jātaka" o "Vite anteriori del Buddha" (da jāti, "vite anteriori"), una raccolta di 547 storie di altrettante vite anteriori del Buddha storico contenute nella sezione "Khuddaka Nikaya" del "Sutta Pitaka" (parte del Canone buddhista), il pavone è una forma di bodhisattva sotto la quale egli insegna la rinunzia ai legami mondani e simboleggia così la compassione, la prudenza e la saggezza. In un altro racconto degli "Jātaka", il "Nacca Jātaka" ("La danza del pavone") appare invece, in apparente contraddittorietà (vista la polisemanticità insita in molti simboli antichi), come simbolo della vanità: «Durante la prima era del mondo i quadrupedi elessero come loro sovrano il Leone, gli animali acquatici il pesce Ananda e gli uccelli l'Oca d'oro. Il re degli uccelli aveva una figlia giovane e bella che egli accontentava in ogni desiderio: quando lei chiese di potere scegliersi un marito, il re accondiscese e radunò tutti i volatili su un pianoro fra le rocce dell'Himalaya. La principessa, dopo averli esaminati attentamente, scelse il pavone dal collo lucente come una pietra preziosa, il quale al colmo della gioia esclamò: "Fino a oggi avete visto soltanto la mia bellezza, ma ora scoprirete anche la mia vigoria". E dimenticando modestia e decoro, nel bel mezzo di quella adunanza aprì le ali e cominciò a danzare mostrando le sue nudità. Indignato, il re Oca d'oro esclamò: "Costui non ha modestia d'animo né decenza di comportamento: io non darò mia figlia a questo spudorato". E pronunciò questi versi:

Piacevole è la tua voce, magnifico il tuo dorso,

splendente il tuo collo come pietra preziosa,

smisurate le piume della tua coda,

ma per la tua danza non ti darò mia figlia.

Poi la concesse a un papero, suo nipote». Questo racconto che si basa sull'osservazione del corteggiamento naturale del pavone, il quale in effetti alza la coda e mostra di proposito i genitali alla femmina prima della copula, fu all'origine della bolla di "spudoratezza" e di "vanità" che ritroveremo anche in Occidente. I gianisti, concentrati soprattutto nell'India nord-occidentale, seguaci di una religione molto antica che, come il buddhismo, affonda le proprie radici nella tradizione induista, dalla quale si distinse in seguito a un movimento di riforma rispetto all'ortodossia vedica e brahmanica, camminano a piedi nudi e talvolta spazzano con una scopetta (a volte formata da penne di pavone) il cammino di fronte a sé per non calpestare inavvertitamente insetti e altre creature viventi. Secondo il gianismo le penne di pavone, che i saggi utilizzavano come scaccia-mosche, inoltre, liberano dalla paura se portate addosso e respingono il maligno; il saggio Munidhurandhara, affermava inoltre che non c'è posto per i serpenti nel regno del pavone dato che all'udire il suo richiamo fuggono via.

(continua nel prossimo articolo...)

Marco Miosi (antropologo culturale)


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