Con l'avvento dell'Impero Ottomano e la sua espansione nell'Europa orientale (XV-XVII secc.), ad esclusione forse della Grecia e di poche altre aree, più che la coltivazione del pistacchio a diffondersi fu l'innovativo uso alimentare di questa pianta (ad esempio, in grani veniva tradizionalmente aggiunto al caffè turco) e in conseguenza di ciò, la voce di derivazione araba fústuq dopo essere passata nel turco fistik/festek (anche şamfıstığı e antep fıstığı), si diffuse indirettamente nelle lingue balcaniche: vedi il greco moderno φιστίκι (fistíki)/φυστίκι (fystíki) "pistacchio" e φιστικιά (fistikiá)/φυστικιά (fystikiá) "albero di pistacchio", l'albanese festek, il bulgaro fistashka/sham-fŭstŭk (probabilmente da qui passò al russo e all'ucraino fistashka e al bielorusso fistashki), il macedone fstaci, il rumeno fistic/fistike e l'antico sloveno pistikz/pistikyj (mentre nello sloveno moderno si dice pistacija, derivato, come pure il serbo-croato pistać e l'ungherese pisztácia, dall'italiano pistacchio). In Europa, quindi, a parte l'area di espansione islamica (Spagna, Sicilia e Balcani centro-meridionali, dove erano o sono attualmente diffusi i derivati dell'arabo fústuq e poi del turco fistik), le restanti lingue utilizzano termini di derivazione latina (pistacium) passati principalmente in direzione sud-nord (con l'eccezione del maltese pistaċċi) a partire dall'italiano medievale pistacchio, indicando di conseguenza che le vie di diffusione di questo alimento avevano nell'Italia un punto nodale di smercio e di commercializzazione (se non di produzione) di prodotto proveniente in gran parte dalle aree poste sotto il dominio islamico (e in misura minore dall'Impero Bizantino): vedi il francese pistache (pistace nel XIII sec.) da cui la voce si diffuse nelle lingue germaniche (tedesco pistazie, olandese pistache, inglese antico pystace e moderno pistachio dal XVI sec., danese pistacie, svedese pistage, norvegese pistasj, islandese pistachio) e da queste a quelle celtiche (gallese pistasio, gaelico irlandese pistéise), baltiche (lettone pistācija, lituano pistacija), ugro-finniche (finnico pistaasi, estone pistaatsiapähkel) e slave (ceco e slovacco pistácie, polacco pistacjowy). In Oriente, ad ovest dei monti Zagros, è invece la cultura (e la lingua) persiana, vera custode della qui "veramente" autoctona coltivazione della Pistacia vera, che si è prestata storicamente a diffondere l'uso alimentare e la coltura di questa pianta, oltre che, naturalmente, il suo appellativo: dal persiano moderno pistah/peste (esiste però nel farsi, sebbene sia poco usata o desueta, anche la voce di derivazione araba fustuq/fustaq) il termine, infatti, è stato adottato dall'armeno pistak, dalle altre lingue iraniche (pashto pistaʿh, curdo pisteq - esiste però anche la forma fisteq forse direttamente adottata dall'arabo fústuq o dal persiano a sua volta arabizzato fustuq e la stessa cosa potrebbe dirsi per la forma armena pistak), da alcune lingue turche (turkmeno pisse, azero püstə) e da diverse lingue indo-arie (urdu pis'tah, indostano, punjabi e marathi pistā, nepalese pestā/pistā, bengalese pēstā). A testimonianza dell'alto apprezzamento che questa pianta rivestiva e riveste nella cultura persiana, basti ricordare che nella poesia classica le labbra dell'amata erano accostate metaforicamente a dei frutti di pistacchio e quest'uso è rimasto tuttora in certe espressioni poetiche di uso corrente sia in Persia che in India (pistaʼi ḵẖandān, pistaʼi shakar-fishān, pista-lab).
Marco Miosi (antropologo culturale)