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25 gennaio 2012
Viaggio nella parola: storia del pistacchio (IIIa parte)

In contemporanea, a partire dalla Persia la pianta di pistacchio si estese verso oriente tanto da essere segnalata in Cina attorno al X secolo d.C. (con il nome di hu chen tzu). A partire dal VII secolo, con l'espansione arabo-islamica, si assistette a una nuova ripresa e diffusione della coltivazione del pistacchio che in molte aree del Mediterraneo era ormai caduta in disuso a seguito delle invasioni barbariche: in un manoscritto del VI secolo d.C., il De observatione ciborum del fisico bizantino Anthimus alla corte del re ostrogoto Teodorico il Grande, viene però citato brevemente il pistacchio come un ottimo alimento (pistacia vero et ipsa bona et apta sunt) indicando che quantomeno come prodotto alimentare di ambito "elevato" e in connessione con la cultura greco-bizantina era ancora noto. Lo scarso valore commerciale (frutto di una diminuzione nella produzione locale e di un calo del consumo unito ad una conseguente perdita del valore e dell'apprezzamento nell'ambito del consumo alimentare) del pistacchio nel Medioevo e nel Rinascimento europei sarebbe indirettamente dimostrabile attraverso una serie di espressioni della poesia burlesca dell'epoca come "non valere un pistacchio", nel senso di non valere niente (tuttora presente nell'italiano colloquiale), o "non curarsi un pistacchio", ossia non curarsi per niente, come testimonia ad esempio Luigi Pulci nel "Morgante" (1483): "Colui non par che si curi un pistacchio / Perché Frusberta gli levi del pelo", dove Frusberta è la spada di Rinaldo. Nella cultura islamica, invece, il pistacchio incontrò un successo crescente in ambito alimentare tanto da essere utilizzato non solo principalmente dalle classi elevate (come avviene tuttora) ma anche da quelle "popolari" in particolare nelle aree di maggiore produzione, essenzialmente in Siria, dove costituisce tuttora un importante ingrediente nelle feste di matrimonio e dove viene regalato all'ospite a seguito di una visita di cortesia in un piccolo sacchetto come gesto di bontà e gentilezza. In un ricettario egiziano medievale del XIII secolo, dal titolo di "Kanz al-Fawa'id fi tanwi' al-mawa'id" ("Il tesoro dei consigli utili per la composizione di una tavola variata"), è riportata una ricetta nota come "Tabahaja" basata sull'abbinamento tra un bollito di carne, aromatizzato con menta, spezie, miele e aceto, e la nota dolce e verde dei pistacchi, che servivano spesso (soli o in abbinamento con altra frutta secca o con i ceci) per legare o ispessire le salse agrodolci (sikbaj). Secondo quanto sostiene la sociologa tunisina Zaouali, i piatti che in origine si facevano con i pistacchi (derrata costosa) oggi si preparano ormai con i piselli, quasi che la funzione dei pistacchi si limitasse all'effetto visivo dato dal colore verde. Nell'Andalusia medievale erano utilizzati come condimento (assieme ai pinoli e allo zucchero) delle frittelle mentre in Siria all'incirca alla stessa epoca erano adoperati, dopo essere stati scorticati, tostati nell'olio di sesamo, sbriciolati e mescolati con zucchero in polvere, in un riso cotto nel grasso animale. L'uso alimentare del pistacchio nella cucina arabo-islamica medievale divenne a volte talmente predominante da costituire la nota caratteristica di alcune ricette che prendono il nome proprio dall'ingrediente principale con cui sono confezionate e nella fattispecie abbiamo la fastuqiyya ("pietanza a base di pistacchi") che ebbe degli emuli in una ricetta dell'Europa cristiana nota con l'evidente arabismo di festiggia.

(continua nel prossimo articolo...)

Marco Miosi (antropologo culturale)


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